Di tutti gli animali che l’uomo alleva forse sono proprio le api quelle che risentono maggiormente dell’impatto del clima impazzito
Nel toccare i diversi aspetti che rientravano tra gli obiettivi, il Convegno di chiusura del Progetto BEENOMIX 2.0 (PSR 2014-2020 di Regione Lombardia), ha fornito qualche spunto interessante circa la vexata quaestio della mitigazione degli effetti dei cambiamenti climatici in apicoltura.
Abbiamo inverni brevi e miti che finiscono troppo presto e incoraggiano le colonie di api a iniziare in anticipo una vigorosa deposizione di covata in modo da disporre di un numero di bottinatrici all’altezza degli attesi raccolti primaverili.
Ma è una falsa partenza. I mesi primaverili che seguono possono essere freddi, piovosi oppure così secchi da inibire quella abbondante secrezione di nettare che
è il punto di partenza per una generosa produzione di miele.
Le covate troppo copiose e precoci che, fino a pochi decenni fa, permettevano alla nostra benemerita varietà Ligustica di Apis mellifera di produrre nell’ambiente mediterraneo raccolti da record oggi sembrano controproducenti.
Tanta covata significa tanta energia per tenerla calda e alimentarla. Tutto bene se poi le fioriture primaverili, tipicamente l’acacia (Robinia pseudoacacia), potevano giovarsi di uno sterminato popolo di bottinatrici, capaci di portare a casa raccolti
straordinari.
Se però questi mancano, le colonie si trovano spiazzate e a rischio di collasso per fame. Diventa necessaria una nutrizione di soccorso proprio nel momento in cui dovrebbe esserci la massima abbondanza di nettare e polline da raccogliere.
Nutrizione che lo scorso anno ha superato spesso il chilo di sciroppo per chilo di miele prodotto. Un fatto che espone l’apicoltore che salva la vita alle sue colonie al rischio di passare per adulteratore del miele, se mai vi si trovassero tracce dello sciroppo.
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