“Buonasera, ho letto con grande meraviglia e disappunto sul n. 8/2020 della vostra rivista l’articolo di Luca Bosco dal titolo “gli amici che non ti aspetti”. Ritengo che il messaggio comunicato ai lettori attraverso tale articolo sia sbagliato, regressivo ed in contrasto con quanto viene solitamente espresso dalla vostra rivista”.
Inizia così la mail al vetriolo che un lettore ha inviato alla nostra redazione dopo aver letto il mio articolo, pubblicato sul numero di Novembre. E prosegue: “Il concetto che qui viene chiaramente espresso è che il profitto aziendale è la cosa più importante, non importa come esso venga perseguito [..]. Mi chiedo se la vostra rivista non si vergogni ad esprimere
pubblicamente concetti simili. Invito il vostro direttore e tutti i redattori a dissociarsi pubblicamente e formalmente da un simile approccio che non esito a definire delinquenziale, in quanto totalmente privo di moralità e rispetto per l’ambiente che è patrimonio di tutti noi”.
Purtroppo (per me) questo lettore non è stato il solo a sentirsi offeso da ciò che ho scritto e, soprattutto, da come l’ho scritto. Per evitare che il lettore arrivasse a questo tipo di lettura avevo inserito immagini, e relative didascalie (che qui ripropongo), che mi sembravano difficilmente equivocabili. Soprattutto quella in cui sono ritratti ugelli antideriva, tacciati di essere ben poco bee friendly, avrebbe dovuto suggerire che i concetti espressi nel testo, così come lo stile e l’argomentazione, non erano da prendere troppo seriosamente. Serio, anzi serissimo, voleva essere invece l’attacco a quella mentalità che sta, nemmeno troppo lentamente, erodendo la possibilità e il diritto di fare apicoltura laddove sussistono interessi agroindustriali. Cioè ovunque. Per farlo, per attaccare la mentalità che senza scrupoli e vergogna si fa chiamare imprenditoriale agricola, ho scelto un modo inconsueto (ma antico quanto il mondo) di scrittura: ho messo in bocca a un apicoltore le parole e il pensiero senza scrupoli e vergogna di cui sopra per creare un nonsense, un’aberrazione che sovrapponesse due elementi incompatibili e diametralmente opposti come lo sono la visione di un apicoltore e il profitto aziendale che non si cura delle conseguenze sull’ambiente e sul lavoro degli altri. “Delinquenziale, in quanto totalmente privo di moralità” è il discorso che ne viene fuori, sono d’accordo col lettore arrabbiato: ma è il discorso di una caricatura, non quello dell’autore..
Non ha funzionato, almeno non per tutti e, nel prenderne atto, proverò a dirvi come e da dove è nata l’idea di quell’articolo.
La mia apicoltura è nata in provincia di Cuneo, nell’albese, e fino al 2012 la
mia è stata un’attività esclusivamente stanziale; fare nomadismo non mi conveniva in alcun modo in quanto nelle annate magre la resa media annua dei miei apiari stanziali si attestava al di sopra, comunque, dei 60 kg/alveare. Nell’albese ho imparato a lavorare con le api e ad allevare api regine: è qui che ho impiantato la mia attività, è qui che vivo ed è qui che ho intenzione di vivere e lavorare in futuro. Meno di dieci anni dopo l’ultima stagione degna di questo nome (il 2011 con 115 Kg di miele per alveare, in media) i pochi apiari stanziali e l’allevamento di api regine che ancora ho in zona andrebbero, a ragion di logica, smantellati e trasferiti altrove. Altro che fonte di reddito e di soddisfazione personale! Sono un serio problema: nel 2020 ho passato la stagione a curare le famiglie avvelenate dall’abamectina irrorata sul nocciolo (e sul tarassaco) e ho perso completamente i giri di regine di aprile, fondamentali per la mia azienda. Sono riuscito ad allevare solo un quarto dei nuclei che solitamente produco e ho vissuto per mesi con l’incubo che il poco miele che (nonostante tutto) ho prodotto in zona potesse essere contaminato da residualità agro-chimiche.
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